L’ennesimo rogo in un insediamento abusivo, con annessi devastanti effetti ambientali per l’intera area circostante, riapre il dibattito sulla gestione dell’accoglienza delle famiglie di etnia rom. L’ultimo esempio in ordine di tempo volto a dimostrare come il sistema legato all’ospitalità appaia tutt’altro che efficiente (soprattutto secondo chi opera nelle organizzazioni umanitarie e onlus) riguarda l’incendio dello scorso primo maggio avvenuto nella zona orientale di Napoli, nell’ex mercato ortofrutticolo di via Emanuele Gianturco.
Le fiamme divampate hanno distrutto buona parte della struttura, costringendo le circa 130 persone di etnia sinti e rom provenienti dalla Romania, che dimoravano senza titolo autorizzativo nell’area delle vecchie celle frigorifere, a fuggire a tutto spiano. Messe in salvo dai pompieri e forze dell’ordine, si è immediatamente aperta la difficile questione della ricollocazione delle famiglie.
Il Comune di Napoli non ha tanti spazi adeguati. Non tutti i campi abusivi o improvvisati sono stati smantellati. Un trend, a dire il vero, segnalato anche in altre regioni d’Italia, come dimostra un rapporto dell’Associazione 21 luglio presentato in Senato un mese fa e di cui fra poco parleremo.
Nel caso specifico di Napoli Est, circa 50 persone, comprese donne e bambini con malattie oncologiche, sono adesso ospitate presso la palestra dell’ex scuola Grazia Deledda del quartiere di Soccavo, periferia occidentale di Napoli, dunque lontano dal luogo dell’incendio, a cui viene garantito un letto e il vitto.
Inevaso, finora, il tema dell’accoglienza delle altre 80 persone, che nemmeno il tavolo tecnico del 2 maggio al Comune, con buona parte dell’amministrazione, Caritas, Protezione Civile, Diocesi di Napoli, Protezione Civile, è riuscito a risolvere. Parte di loro è propensa a tornare nelle città della Romania dalle quali provengono, come Timisoara, George, Bacau, dopo aver recuperato – previa autorizzazione delle autorità dopo la messa in sicurezza dell’ex mercato ortofrutticolo incendiato – i propri effetti personali.
“Stiamo instaurando un rapporto con queste famiglie. Qualcuno ha rifiutato le soluzioni offerte, compresa quella di andare in una chiesa di Secondigliano su proposta della Diocesi di Napoli” ravvisa l’assessore al Welfare della giunta di Gaetano Manfredi, Luca Trapanese.
Una tesi che però non convince del tutto le organizzazioni in difesa dei più fragili. “Napoli non è in grado di affrontare un’emergenza del genere o anche un terremoto, un’inondazione. Sarebbe necessario un centro di emergenza fissa h24, non bastano certo i lettini da trovare singolarmente” afferma Antonio Esposito, della Caritas Diocesana di Napoli. Ha poi aggiunto: “La notte dopo l’incendio, molte famiglie rom che erano nel mercato ortofrutticolo hanno dormito all’addiaccio per paura di perdere le poche cose che avevano e soprattutto i documenti, altri ospiti da parenti. È già successo dopo l’incendio di un altro campo rom, quello di Barra (sempre nella zona orientale di Napoli, ndr.) e recuperarli è stato difficile. Ci vorrebbe più attenzione da parte delle istituzioni”.
Alenia, madre sola con 4 figli, racconta la notte post incendio. “Abbiamo dormito dai nostri parenti a Forcella, ma siamo subito tornati per recuperare le nostre poche cose”. Anche per lei il futuro, dopo un presente già precario, è un’incognita. Ma cosa è successo domenica pomeriggio? “Non lo sappiamo – ha raccontato -. Ci siamo accorti delle fiamme e siamo corsi subito via dando l’allarme”.
Una dinamica simile all’incendio di via Gianturco avvenne nel 2017 quando a incendiarsi fu il campo rom abusivo di Cupa Perillo a Scampia. Anche in quel caso parte delle famiglie (in regola) furono ospitate alla Deledda, mentre un’altra parte rimase per circa un anno nell’auditorium Fabrizio De Andrè dello stesso quartiere, lasciato dopo un lungo tira e molla.
Altra emergenza è la scolarizzazione dei bambini rom, sovente assente. “La sera dell’incendio del 1° maggio un bambino ha detto: ‘Questo è il quarto incendio che vede il mio zaino’. Dopo gli incendi degli insediamenti di viale della Maddalena (periferia di Napoli ndr.), via Gianturco e Barra ha visto un altro incendio qui. La situazione è drammatica dal punto di vista umanitario, queste persone devono essere oggetto di un intervento più stabile. Al di là della situazione ambientale”, è l’ammonimento di Maria Esposito, presidente associazione onlus Nea, che ha ricollocato in alcune scuole napoletane i bambini sinti e rom che rischiavano di non avere istruzione.
“Noi facciamo il possibile, ma il problema dell’accoglienza dei rom dev’essere affrontata a livello della Comunità Europea”, fa sfoggio di realismo l’assessore comunale Trapanese. Una tesi condivisibile ma che cozza con quanto successo alcuni anni fa: il Comune di Napoli, quando a guidare l’ente era Luigi de Magistris, perse infatti un finanziamento da circa 7 milioni di euro finanziato dall’Europa per costruire nuovi insediamenti. E, da allora, le condizioni dei campi sia autorizzati che abusivi non sono migliorati.
Gli insediamenti rom in Italia
L’Associazione 21 luglio ha presentato un mese fa il report digitale “Il Paese dei campi’’, nel corso di un’iniziativa promossa dalla Commissione per la promozione dei Diritti Umani del Senato, in vista della Giornata Internazionale dei diritti dei rom dell’8 Aprile. Secondo il rapporto dell’associazione, sono oltre 18700 i rom e i sinti in emergenza abitativa. Di questi, oltre 12.000 abitano in 113 insediamenti formali presenti in 73 Comuni e in 13 regioni italiane a cui si aggiungono 2 centri di raccolta e 6 aree residenziali monoetniche in cui vivono 5500 persone. In totale, al chiuso e all’aperto gli insediamenti formali in cui dimorano rom e sinti sono 121. Vengono invece stimate 5500 presenze negli insediamenti informali – evidentemente non riconosciuti e non autorizzati – in Italia.
In totale, sempre secondo le rilevazioni dell’associazione 21 luglio, nel nostro Paese esistono 45 campi rom, abitati da 7128 persone. Il più grande è situato in via Candoni a Roma, con 795 presenze. La massima concentrazione si trova invece proprio nell’area metropolitana di Napoli con ben 8 insediamenti e 1336 persone censite. Nei Comuni di Pisa, Gioia Tauro e Cosenza sorgono invece case popolari con un massimo di 930 rom da poter ospitare. A Napoli e a Brescia esistono gli unici due centri di raccolta rom con 218 persone.
Per quanto riguarda i campi abitati dai sinti, in Italia ce ne sono ora 66, abitati da 4814 persone. Il più grande di questo si trova a Pavia con 265 persone. Nei Comuni di Villafalletto, in provincia di Cuneo, di Padova e di Carmagnola, in provincia di Torino, sorgono aree residenziali monoetniche. Dal 2018 a oggi, invece, sono 26 gli insediamenti rom e sinti chiusi o superati. Secondo quanto scrive nel suo rapporto l’associazione 21 luglio, per superare un insediamento monoetnico, cioè abitata da una sola comunità, “non servono approcci speciali’’, cioè “su base etnica, né tantomeno uffici dedicati. Fondamentale è partire da processi di coprogettazione calibrati su ogni singolo insediamento e che coinvolgano anche i residenti.
Risulta poi importante prevedere interventi ordinari di politica sociale che mirino a sviluppare percorsi inclusivi individualizzati e strutturati sulle esigenze dei singoli nuclei familiari”. Inoltre, aggiungono dalla 21 luglio, “malgrado le politiche nazionali e locali promosse da decenni nei confronti delle comunità rom e sinti, il nostro Paese paga la cronica carenza di informazioni statistiche affidabili relative agli insediamenti monoetnici presenti sul territorio nazionale’’. L’auspicio è quello di “censimenti a cadenza periodica’’.
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