Caos nella nella capitale del Sudan, Khartoum, a causa dei feroci combattimenti tra l’esercito regolare di Karthoum e i paramilitari delle Forze di supporto rapido. Per alcuni c’è lo zampino della Russia e dell’America.
Non si placa la situazione a Khartoum, in Sudan, dove da giorni si fronteggiano l’esercito regolare e le Forze di supporto rapido (Rsf). I due gruppi si erano già scontrati durante il colpo di Stato del 2021.
La situazione sembrerebbe essere tragica. L’ultimo bilancio dell’Onu parla di oltre 180 persone morte durante gli scontri e di oltre 1800 feriti, numeri che ha riferito alla stampa il rappresentante speciale delle Nazioni Unite nel Paese, Volker Perthes. A Darfur sono stati uccisi anche tre operatori umanitari del Pam-Wfp, il Programma alimentare mondiale dell’Onu che ha annunciato una sospensione temporanea delle proprie operazioni nel Paese.
Nel frattempo, l’esercito sudanese e i paramilitari si sono dichiarati disponibili all’apertura temporanea (di tre o quattro ore) di corridoi umanitari chiesti dall’Onu, pur riservandosi il diritto di rispondere al fuoco della parte avversa.
A Khartoum mancano l’acqua e l’elettricità, ed è stata colpita anche la sede dell’ufficio di corrispondenza della tv panaraba Al Arabiya e del suo canale di sole notizie al-Hadath. Inoltre, nonostante gli appelli delle organizzazioni internazionali al cessate il fuoco, nella capitale si sentono spari, colpi di artiglieria pesante e forti esplosioni.
المستشار السياسي للدعم السريع لـ #العربية: نؤكد سيطرتنا على مبنى الإذاعة والتلفزيون
ـــــــــــــــــــــــ#العزة_والمجد_للوطن#قوات_الدعم_السريع#جاهزية_سرعة_حسم pic.twitter.com/ZTe4UwMS6h— Rapid Support Forces – قوات الدعم السريع (@RSFSudan) April 17, 2023
Da un lato le Rsf dichiarano su Facebook che a Port Sudan sono state attaccate da “aerei stranieri”, mentre dall’altro l’esercito sudanese dice di avere preso il controllo della più grande base delle Rsf a Karari. Almeno una ventina di alunni delle classi elementari e medie della Comboni Boys School, la scuola maschile comboniana della capitale Khartoum, sono rimasti intrappolati nel loro istituto poiché bloccati dagli scontri scoppiati da sabato tra l’esercito e le milizie paramilitari. “Abbiamo parlato con i genitori per far loro sapere che i bambini stanno bene”, ha raccontato il preside Joseph Francis, spiegando che i genitori non sono riusciti a raggiungere la capitale per recuperare i ragazzini poiché vivono fuori città e i ponti di collegamento da Omdurman e Bahari sono stati chiusi.
Il Sudan convive con questi scontri da sabato 15 aprile, a causa di Al-Burhan e Daglo, i due capi rispettivamente dell’esercito sudanese e delle Forze di supporto rapido. La situazione è molto delicata poiché nei giorni scorsi si sarebbe dovuto firmare un accordo che avrebbe aperto un processo politico in grado di riportare i civili al potere in Sudan ma la firma è stata continuamente rinviata (rinvii che hanno fatto infuriare anche i cittadini che sono scesi in piazza per protestare) per disaccordi tra l’esercito regolare, guidato da Burhan, e dalle Forze di supporto rapido, capeggiato da Hemedti, che disporrebbero di circa 100mila uomini, i cosiddetti “janjaweed”, noti come i “diavoli a cavallo”.
Durante il colpo di stato di due anni fa, Hemedti e Burhan hanno formato un fronte comune per estromettere i civili dalla guida del paese dopo l’arresto di Omar al-Bashir, finito davanti alla Corte penale internazionale de L’Aja. Col passare del tempo, Hemedti ha costantemente denunciato il colpo di stato e anche di recente ha scelto di schierarsi con i civili, dunque contro l’esercito nelle trattative politiche, bloccando ogni possibile soluzione alla crisi in Sudan.
Le ragioni delle divergenze riguardano essenzialmente il futuro dei paramilitari, che sarebbero dovuti entrare nell’esercito regolare, istituzione che in Sudan detiene sia il potere politico che economico. L’esercito non rifiuta questo compromesso, ma vuole comunque imporre le sue condizioni di ammissione e limitarne l’integrazione. Hemedti, invece, rivendica un’ampia inclusione e, soprattutto, un ruolo centrale all’interno dello stato maggiore.
A ciò si aggiunge che i Comitati di resistenza, esattamente come l’Associazione dei professionisti sudanesi, alla base della rivoluzione del 2019, ripetono di rifiutare qualsiasi accordo con i soldati golpisti e hanno continuato, regolarmente, a manifestare contro l’attuale regime, guidato da Burhan.
In questo modo i gruppi armati che si sono rifiutati di aderire al dialogo a dicembre stanno praticamente negando ai civili la possibilità di guidare la transizione. Un accordo tra le parti sarebbe essenziale, in quanto permetterebbe di sganciare le forze armate dalla politica e agevolerebbe un ritorno degli aiuti internazionali in Sudan, uno degli Stati più poveri al mondo. Insomma, una situazione complicata che ha scosso anche l’Italia.
“Seguo con preoccupazione gli avvenimenti che si stanno verificando in Sudan. Sono vicino al popolo sudanese, già tanto provato, e invito a pregare affinché si depongano le armi e prevalga il dialogo per riprendere insieme il cammino della pace e della concordia”, ha dichiarato Papa Francesco. Una “vivissima preoccupazione” è stata espressa anche dal governo italiano. “Solo un cessate il fuoco immediato con la ripresa dei negoziati potrà consentire di giungere a un accordo politico inclusivo per la formazione di un governo civile di transizione che porti il Sudan a elezioni democratiche”, ha detto il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, al vertice del G7 Esteri a Karuizawa, in Giappone.
Anche l’America si è fatta sentire: sul tema è intervenuto anche il segretario di Stato americano Anthony Blinken che, insieme ai ministri degli Esteri di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, Faisal bin Farhan e Abdullah bin Zeid Al Nahyan, ha chiesto alle parti in conflitto di porre subito fine agli scontri. “Abbiamo convenuto che le parti devono cessare immediatamente le ostilità senza precondizioni. Esorto il generale Abdel Fattah Burhan e il generale Mohammed Daglo ad adottare misure attive per ridurre le tensioni e garantire la sicurezza di tutti i civili”, ha dichiarato in una nota il Dipartimento di Stato Usa.
Sulla vicenda degli scontri si è espresso anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che ha condannato fermamente i combattimenti tra le forze di supporto rapido e le forze armate sudanesi e ha chiesto di “portare subito davanti alla giustizia” chi ha ucciso i tre operatori umanitari del Pam in Darfur. “Il segretario generale ha rivolto l’invito ai leader delle Forze di supporto rapido e delle Forze armate sudanesi a cessare immediatamente le ostilità, ripristinare la calma e avviare un dialogo per risolvere l’attuale crisi”, ha dichiarato Stephane Dujarric, il portavoce di Guterres, aggiungendo che Guterres ha invitato gli Stati membri delle Nazioni Unite nella regione “a sostenere gli sforzi per ristabilire l’ordine e tornare sulla via della transizione in Sudan”. Ha poi sottolineato come il segretario abbia già avuto i primi colloqui, sia con il presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi che col presidente della Commissione dell’Unione africana Moussa Faki Mahamat.“Guterres ha già parlato con il comandante della Rsf, Mohamed Hamdan Daglo, e presto lo farà anche con il comandante delle forze armate sudanesi Abdel Fattah al-Burhan”, ha dichiarato Dujarric.
Eppure, c’è chi pensa che dietro questi scontri ci sarebbe una sorta di ‘guerra per procura’ tra Usa e Russia. Ne parla Today Mondo, che racconta del presunto legame con il ruolo del Gruppo Wagner in Sudan. I paramilitari filo-russi delle Forze di supporto rapido (Rsf), che la Wagner appoggia, stanno tentando di cacciare la giunta militare guidata da al-Burhan. Il giornale riporta che poco tempo fa, un’inchiesta condotta da Le Monde, in collaborazione con il Progetto di investigazione sulla corruzione e il crimine organizzato (Occrp), aveva messo in luce i legami profondi tra il gruppo Wagner e il Sudan.
L’inchiesta rivelò che l’organizzazione di Yevgeny Prigozhin, attraverso la società Meroe Gold Limited, avevano stretto un accordo con l’ex dittatore Omar al-Bashir per lo sfruttamento delle risorse d’oro, in cambio di un sostegno militare. Dal 2017, infatti, i mercenari del gruppo Wagner cominciarono a estrarre oro in Sudan. Secondo media africani, in questi anni il generale Mohamed Hamdan Daglo, meglio noto come Hemedti, ha fatto visita ai suoi ‘padrini’ a Mosca per consolidare i rapporti. Gli stessi mercenari della Wagner nel tempo avrebbero addestrato i miliziani delle Rsf e le parti avrebbero formato una società comune per l’estrazione dell’oro attraverso cui la Wagner avrebbe contrabbandato centinaia di tonnellate d’oro fuori dal Paese. Daglo ritornò da uno dei quei viaggi a Mosca nel 2022 non solo con la consapevolezza di aver stretto rapporti più solidi con il suo alleato, ma aprendo anche alla possibilità per la Russia di aprire una base navale sul Mar Rosso. Oggi la Wagner starebbe ricambiando ‘il favore’ sostenendo le Rsf.
Lo scorso 9 febbraio il ministro degli esteri russo Lavrov era a Khartoum per sbloccare un accordo che prevede la costruzione e la successiva messa in esercizio di una base navale sulle coste del Mar Rosso. Inoltre, già due giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina Daglo si era diretto a Mosca. Lavrov ha riconosciuto la presenza di società minerarie di proprietà russa in Sudan, affermando che lavoravano “principalmente nel campo dello sviluppo della base di risorse minerarie”. Sarebbe proprio il gruppo Wagner a tenere il controllo di varie miniere d’oro sudanesi in cambio di addestramento militare e di intelligence.
Ma i mercenari di Mosca non si troverebbero solo in Sudan, opererebbero in Africa su richiesta dei governi africani: nella Repubblica Centrafricana i combattenti Wagner girano per la capitale Bangui su veicoli militari anonimi, sorvegliano le miniere d’oro e di diamanti del Paese e hanno contribuito a mantenere al potere il presidente Faustin-Archange Touadera. Lavrov aveva visitato il Mali e la Mauritania presentando la Russia come forza antimperialista e attingendo al risentimento del colonialismo occidentale nel continente. La crescente influenza della Russia è stata particolarmente evidente a gennaio in Burkina Faso, quando i manifestanti che condannavano la Francia e la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale hanno sventolato bandiere russe per le strade della capitale, Ouagadougou.