Stringeva tra le mani la sua giacchetta e sorrideva, ma con gli occhi. È un film “forte”, mi ha avvisato, e mi è bastato per accettare l’immersione nelle complesse acque del cinema. Quando sono entrato nella sala di proiezione, una mia vecchia conoscenza che aveva visto il film al turno precedente ha voluto prepararmi. Sì, è stato un film forte. Non solo per l’estremo realismo delle torture, ma perché dice il vero, e lo fa sfuggendo a didascaliche denunce e flebile pietismo. Vincitore del Leone d’Argento per la miglior regia e del Premio Marcello Mastroianni per il miglior attore esordiente (Seydou Sarr), la pellicola di Matteo Garrone, Io Capitano, ha ottenuto un grande successo all’80esima edizione del Festival del Cinema di Venezia guadagnandosi la candidatura ufficiale per gli Oscar 2024.

Lo spunto biografico

Il film nasce da uno spunto biografico, quello di Fofana che a 15 anni si ritrovò al timone di una barca che dalla Libia traghettò 250 migranti verso le coste italiane, senza aver mai condotto una barca e raggiungendo l’Italia al grido di “Io capitano, io capitano”. Finì in carcere per sei mesi scampando però alla condanna di trent’anni prevista oggi per il favoreggiamento di immigrazione e trasferendosi poi in Belgio dove oggi vive con la sua famiglia. Nonostante la scrittura della sceneggiatura sia stata relativamente breve (sei mesi), la documentazione ha impiegato oltre due anni ed è consistita nell’ascolto delle storie di chi la rotta verso l’Europa l’ha percorsa e anche nella ricostruzione delle tante vite spezzate con un occhio di riguardo a tutte le fasi del viaggio e non solo l’ultima su mare.

Il Senegal come punto di partenza

Da lì è da notare la scelta del punto di partenza: il Senegal. La terra dei protagonisti è luminosa e sprigiona grande energia vitale ed è lontana dall’immaginario comune occidentale di indigenza e guerra.  A Dakar ci sono ragazzini con cellulari connessi a internet, scuole, anche se su strada di terra libera e pietrisco, e la musica festosa che accompagna la quotidianità delle numerose famiglie. Sembrerebbe una minuzia, ma queste realtà spiegano perché il film non è un documentario di inchiesta, ma un viaggio dell’eroe e la fuga dei protagonisti in Europa è una scelta e non una costrizione. La loro è una scelta non lontana da quella di tanti nostri concittadini che emigrano in Paesi stranieri per concretizzare le proprie ambizioni. Sono anche loro abitanti di un mondo globalizzato e non accettano la mediocrità, per quanto serena, che il Senegal offre loro.

La storia

La vicenda ha come protagonisti la vita dei due cugini Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall) che decidono di intraprendere un viaggio verso la costa nord-africana e di imbarcarsi verso il continente europeo. È un cammino costellato da incidenti e difficoltà: la traversata nel deserto, la cattura libica di Moussa e gli spietati campi di prigionia dove poi Seydou sarà venduto come muratore. È dagli occhi magnetici di Seydou che la storia viene raccontata, cioè da un punto di vista che è esclusivamente suo e di nessun altro. E narrativamente parlando, Garrone sceglie come mezzo comunicativo il wolof, cioè la lingua nativa del 40% dei senegalesi scampando la retorica del paternalismo eurocentrista. Altrettanto significativa è la scelta di non far leggere ai suoi attori protagonisti la sceneggiatura ma di spiegare di scena in scena quale sentimento dovesse prevalere e quali vicende dovessero lasciar accadere.

Il reale e l’immaginario

Ma l’avventuroso racconto di formazione non cede solo alla propria vocazione verista, ma sposa volentieri anche quella favolistica con inserti onirici e surreali tipici delle fiabe e non è un caso che il regista se ne serva nei momenti di maggiore tensione narrativa. Ed è così che i momenti più drammatici, quando per esempio Seydou non riesce a salvare una donna nel deserto o quando si ritrova nel campo di detenzione libico, diventano memorabili e mitizzabili dando forza all’anima del protagonista. Il reale, invece, laddove è presente, non ha mai sfondo politico, motivo per cui Garrone stronca il dibattito mediatico terminando il film un attimo prima che lo sbarco avvenga, ma prende i contorni di mari e deserti. La natura che pervade il film (da segnalare i campi lunghi nel deserto, inediti per Garrone) è solo spettatrice, è sempre neutrale e pacifica. Diventa solo triste sede di sangue e disperazione, e luogo di frontiere tutte umane.

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