Nella Napoli del boom turistico, persiste un sottobosco fatto di paghe da fame e pochissimi diritti per i lavoratori. Una situazione ampiamente diffusa soprattutto in alcuni comparti, dall’abbigliamento alla ristorazione, come già raccontato da Tell in passato. Il nostro giornale racconta ora altre due storie emblematiche del poco rispetto verso chi cerca di crearsi un avvenire facendo sacrifici.
L’odissea di Simona
Simona, nome di fantasia, ha 30 anni ed è residente in provincia di Napoli. Da quando ne ha 19 svolge i più svariati impieghi per pagarsi i libri di testo e le rette universitarie all’Orientale di Napoli dove studia Relazioni Internazionali. Di esperienze difficili in ambito lavorativo ne può raccontare parecchie. Partiamo da quelle più recenti come commessa in un negozio del settore abbigliamento di buon livello, con sede in un’area rinomata del centro di Napoli scelta dai visitatori di tutto il mondo per godersi Partenope. “Ho lavorato per questa azienda dal novembre 2021 ad agosto 2023 – afferma Simona – Avevo un contratto di stage che non superava i 600 euro mensili, di questi un centinaio legato ad Incentivo Donna. Si è trattato del mio primo contratto dopo 8 anni in nero’’. L’entusiasmo, però, non è certo alle stelle, visti i pesanti orari e l’atmosfera vissuta giorno per giorno.
Racconta sempre la 30enne: “Sin da subito ho lavorato dal lunedì al sabato, tutto il giorno sino a sera, con solo mezza giornata libera. Nel mese di dicembre (quello dove notoriamente si aspetta che gli affari siano maggiori visto l’approssimarsi del Natale, ndr.) si sono aggiunte le domeniche, pagatemi con un extra di 40 euro, mentre ho saputo che la paga media sarebbe di 100 euro. Il responsabile diceva che dovevamo stare aperti perché lo faceva anche la concorrenza e di pause se ne facevano davvero poche’’. Lo stress poi d’improvviso presenta il conto, anche a causa di un rapporto non proprio idilliaco con il titolare del negozio con cui Simona si interfaccia costantemente. “Ho perso 10 chili, psicologicamente sono andata a terra. Il responsabile all’inizio mi diceva che non avevo abbastanza esperienza nel settore e si sentiva legittimato a trattarmi male. Poi ci metteva altro carico, ammonendomi che in altri ambiti era anche peggio. Io non ho mai controbattuto, sono stata male anche per la delusione di vedere che un mio coetaneo trattasse così i suoi dipendenti’’.
Simona dopo un certo periodo viene licenziata e richiamata a singhiozzo nella stessa catena di negozi. “Ero sempre in piedi, facevo anche la social media manager. È stato difficile resistere, e infatti poi non ce l’ho più fatta’’. Tra una pausa e l’altra, Simona fa un ulteriore percorso lavorativo sempre in un altro negozio di abbigliamento nel centro di Napoli battuto sovente dai turisti. “Avevo avuto un contratto da 600 euro al mese, che poi il datore di lavoro non mi ha neanche dato. Non solo: per giustificarsi mi ha anche insultata dicendo che non valevo niente. Non sono riuscita ad oppormi perché io sono mingherlina e lui 2 metri. Ho tremato quando ho tentato di affrontarlo’’.
Guardandosi indietro, Simona quasi sembra non credere alle condizioni lavorative accettate per non pesare sulla sua famiglia da giovane studentessa universitaria. Qualche anno fa, dal territorio della provincia di Napoli da dove proviene, la ragazza lavora per 6 mesi in un bar poi cessato di esistere. “La paga era di 250 euro al mese, senza contratto, dalle 7 alle 13 e dalle 15 alle 20. Nei weekend l’orario si prolungava sino a quando c’erano i clienti’’. Anche con un’agenzia di animazione l’esperienza si rivela non entusiasmante: “Il compenso era di 50 euro ad ogni festa che facevamo. Una comunione poteva durare anche 10 ore’’. Ulteriore esperienza traumatica Simona la vive con uno studio dentistico privato gestito da un medico di base in un quartiere periferico di Napoli dove “la mansione originaria era quella di segretaria”. In realtà “facevo l’assistente di poltrona. Dopo un mese il medico mi disse che voleva farmi fare un corso di specializzazione perché ero brava: guadagnavo 600 euro al mese per 30-35 ore settimanali’’. L’epilogo spegne ogni sorriso. “Da un giorno all’altro, dopo un mese, il dottore mi ha mandato via senza volermi neppure pagare. Alla fine mi ha dato molto meno: 200 euro rispetto ai 600. So che ha fatto anche in altre circostanze così’’. Ora Simona è alla ricerca di un altro impiego e sta per completare i suoi studi all’Orientale di Napoli. “A volte mi sento vecchia per il mondo del lavoro’’, confida.
L’esperienza di Gaia
Gaia ha 40 anni, un bel profilo professionale e un’intensa volontà di non abbattersi dinanzi alle difficoltà. “Negli ultimi 2 anni ho fatto esperienze lavorative in un outlet e in uno store con il marchio di un’azienda italiana di lusso a Napoli’’ afferma. “In uno dei negozi – aggiunge – ho lavorato 6 giorni su 7, ma anche 7 giorni su 7, 8 ore al giorno, dalle 10 del mattino alle 20, e soltanto mezza giornata di riposo’’. Il contratto qui di Gaia è di 800 euro per un part-time di 24 ore settimanali che nei fatti è un full time. “La busta paga veniva elaborata in modo tale che lo stipendio alla fine del mese risultasse sempre di 800 euro netti. E non mi veniva pagato nemmeno il cosiddetto ‘fuori busta’, ossia il compenso che alcuni datori di lavoro versano in nero per le ore in più lavorate rispetto a quelle che risultano sulla busta paga”. “Si accetta per necessità – dice Gaia – fino a quando non si trova un lavoro migliore”. “Il problema è che molti lavoratori tendono a giustificare queste pratiche illegali. Quando ho avuto problemi con la busta paga e con i datori di lavoro, spesso chi lavorava con me legittimava i miei titolari, nonostante fossero in torto. Molte colleghe mi hanno detto che non avrei trovato di meglio, e invece non è così visto che oggi ho una posizione contrattuale più tranquilla’’.
Un altro aneddoto dello stesso periodo rafforza la sua testimonianza. “Nel periodo di Natale si lavora di più nella vendita al dettaglio e il datore di lavoro, spesso, per non pagare un’altra risorsa sfrutta quelle già che ha’’. Proprio nelle settimane delle festività, il tutto si ingarbuglia ancora di più. “Ai dipendenti – si rammarica la lavoratrice – è stato chiesto di non fare la pausa pranzo e di lavorare quindi 10 ore al giorno. Io non ho accettato, per questo sono stata penalizzata. Questo trend nel centro di Napoli, quella dei turisti a fiotti, è diffuso ed è una realtà ancora troppo poco raccontata’’. Un’altra esperienza Gaia la vive in un franchising. “Il contratto in quel caso era di 700 euro al mese, sempre per 8 ore al giorno, sempre con contratto part-time’’. Il vero problema per Gaia resta “la tendenza degli imprenditori piccoli, di negozi al dettaglio, di inquadrare i dipendenti part- time ma di farli lavorare full-time senza dare loro i diritti e il riposo che meritano”. I “lavoratori sono sottopagati, ma a volte costretti ad accettare condizioni del genere per mantenersi. Molto spesso c’è chi si adegua a questa situazione e finisce per tollerare e giustificare i comportamenti illegali dei titolari’’.