Negli ultimi giorni, sul web non si è parlato d’altro. E persino Stephen King su X (ex Twitter) ha scritto: “Non posso credere che mi abbiano pagato per parlarne”. Non è l’ultimo libro della Rowling o il film documentario Nasa, ma una serie tv scritta dalle mani di Richard Gadd, regista e attore protagonista, nonché testimone reale della storia. Se Stephen King si è concesso ad un’analisi accurata sul Times è anche perché la serie Baby Reindeer (traducibile in “Piccola Renna”) non è così dissimile dal romanzo, suo capolavoro, Misery: lo stalking a parti invertite, l’ossessione e i tratti horror.

Baby Reindeer esce infatti dal mare magnum di prodotti commerciali in cui Netflix da qualche anno annaspa e lo fa senza particolari partnership o sponsorizzazioni. Quello che basta è la forza di raccontare la più elementare vicenda di stalking abbattendo le statuarie definizioni di vittima e carnefice. Occorre dirlo perché, nonostante l’empatia naturale verso Richard Gadd e il suo personaggio autorappresentativo di Donny Dunn sia indiscutibile, noi spettatori difficilmente ci sentiamo di condannare Martha Scott e la sua persecuzione. Dentro di noi sappiamo che si merita il carcere. Ma sappiamo forse anche che la sua reazione ossessiva è tra le più umane per quanto deplorevoli all’estrema fragilità che ci attanaglia.

La trama

Ma andiamo con ordine, senza spoilerare. Donny Dunn è un aspirante comico che lavora a un pub di Londra per arrotondare. Un giorno davanti a lui si presenta una donna, Martha, con il capo chino e un viso spento. Offrirle un tè gli è spontaneo, se non che quel tè diventa una Diet Coke che Martha inizia a consumare quotidianamente al suo bancone, sfoggiando ogni giorno un look diverso e una risata più sbilenca. Il contatto tra loro cresce, ma mai in modo esclusivamente unidirezionale.

C’è una parte di lui profondamente compiaciuta di quelle attenzioni. La distorsione nasce quando scopre che Martha non è davvero l’avvocata che vantava di essere e che le e-mail che riceve ogni sera terminano con un “Sent by iPhone” quando il cellulare di Marta non era un iPhone. Non finisce qui: le e-mail cominciano a diventare troppe e l’approccio di Martha assume una morbosità affettiva, quasi come se si convincesse che più chiacchieravano più si innamoravano.

Donny sa che il giocattolo è rotto, ma continua a volerci giocare. Forse per vedere se a rompersi sarà anche lui. Le accetta la richiesta su Facebook, la segue fino a sotto casa facendosi persino sgamare e decide di non denunciarla. Neanche la nuova frequentazione con una donna transessuale riesce a distoglierlo da questo pensiero fisso. Forse potremmo parlare di Sindrome di Stoccolma. Anche se quello che Gadd ha intenzione di raccontare probabilmente è anche quel processo mentale che lo persuade di resistere, perché non è mai “abbastanza” lo stalking che vive e mai sufficiente per denunciarla.

Martha è sia quella che lo aspetta in trepida attesa alla fermata del bus, che quella che rianima un suo show con una battuta dalla sala. È quella che lo fa ridere terribilmente e che impazzisce di gelosia. E non siamo pazzi a credere che forse lui ha bisogno di un’ossessione, di qualcosa o qualcuno che si ossessioni a lui. Perché, quando non riesce più a far l’amore con la donna che ha conosciuto, deve pensare a Martha e lo fa in una scena fastidiosa ma necessaria, quella in cui finisce per masturbarsi davanti una sua foto. Una scena che dà fastidio proprio perché dice qualcosa di troppo vero.

Da lì, tra Martha e Donny cresce la tensione tra la perversione di lei e l’inettitudine di lui. Martha, pronta a coinvolgere i genitori con chiamate anonime e Donny che perde la fiducia della polizia dopo aver provato a mettere in trappola Martha senza sapere che lei registrava ogni incontro. L’inettitudine di Donny cade nel monologo in cui si addentra durante un suo sketch. La sua omosessualità, la violenza subita, il gelo che ha dentro.

L’analisi

Donny non reagisce perché non ha la forza di farlo, ma è solo spettatore del suo destino. Martha, al finale, sarà condannata a svariati anni di detenzione, ma la storia finisce con lo stesso Donny che tappezza la sua camera di foto, messaggi e prove di quello che è successo. E con un audio di Martha, uno dei tanti che aveva finito per catalogare sul suo cellulare. Un audio in cui Martha ammette di averlo chiamato Baby Reindeer, come la piccola renna di peluche che aveva da piccola quando intorno “litigavano”. E, intanto, Donny un po’ le assomiglia perché sta ascoltando quell’audio in un bar con il capo chino e il viso spento. E non ha soldi, ma non fa niente perché per questa volta è il barista ad offrirgli da bere.

Resta il dubbio, poi, se sia davvero necessario risalire ai personaggi reali, viste le tante ipotesi divampate su internet nelle ultime ore. Tutti che vogliono conoscere l’identità di Martha, magari per schernirla o per attaccarla. Tutto che diventa un po’ sgradevole se poi il “tratto da una storia vera” significa rintracciare i coinvolti e i colpevoli. Sul Guardian c’è chi reputa Gadd un arrivista per aver sfruttato un fatto personale per lucrarci e per aver infranto l’ambigua etica dell’autofiction. Se è stato davvero un’arrivista non lo sapremo mai. Però se quello che muove lo spettatore dopo questa storia è conoscere gli artefici, allora non ha capito granché.

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