I ricordi del periodo della detenzione nelle carceri in Libia e delle violenze subìte fanno ancora così male da rendere impossibile il silenzio. Per tale motivo, hanno scelto di non tacere su quanto ancora oggi accade nel Paese nordafricano, in mano a bande senza scrupoli che lucrano sui migranti che tentano di arrivare in Europa. Mohamed Daoud e Lam Magok fanno parte di RefugeesinLibya, rete fondata nel 2021 che si occupa di denunciare le vessazioni ai danni delle persone incarcerate e maltrattate.

In questo periodo piuttosto turbolento dominato dal caso Nijeem Osama Almasri, il generale libico ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità arrestato e scarcerato dall’Italia in 48 ore con tanto di rimpatrio su un volo di Stato, Mohamed e Lam rievocano il loro triste passato attraverso una serie di testimonianze che portano in giro per l’Europa, compresa in Italia. Occasione per ascoltarli, un incontro tenuto al Teatro Bellini di Napoli organizzato da Mediterranea Saving Humans, la cui nave Mare Jonia impegnata nei salvataggi in mare è attraccata al porto del capoluogo partenopeo e ci resterà sino alla prossima domenica.

 

Il racconto di Mohamed

“Ho iniziato questo mio lungo viaggio complicato e pericoloso partendo dal Sudan e attraversando moltissimi confini – racconta Mohamed Daoud – Il mio obiettivo era quello di cercare un posto dove non ci fossero fucili puntati contro di me. Cercavo un posto in pace. E per questo ho attraversato il Ciad, la Libia, il Marocco, per due volte l’Algeria e la Tunisia. Quando finalmente sono arrivato a Lampedusa, ho voluto testimoniare cosa ho subìto nel corso di questo lungo viaggio”, costellato di violenze e privazioni.

Daoud si abbandona ai ricordi. “Sono arrivato in Libia nel 2020 cercando di sfuggire ai trafficanti di esseri umani, mi sono ritrovato in un’area dove c’erano tantissimi altri rifugiati. Dopo un po’ di tempo le autorità libiche ci hanno imposto di spostarci da quella zona per non essere arrestati e sfuggire alle torture. Eravamo quasi 3000 persone lì”. Mohamed, come gli altri, ha cercato protezione negli uffici dell’Unhcr (l’Agenzia Onu per i rifugiati), “ma – dice – li abbiamo trovati chiusi per circa 100 giorni. Fuori c’erano bambini e donne, anche in un periodo in cui faceva freddo. Volevamo anche che i giornalisti raccontassero la nostra realtà, ma non potevano: a loro veniva impedito di documentare la nostra posizione”.

Nessuno si è arreso, nonostante le difficoltà. “Avevamo pensato – dice ancora il rappresentante di Refugees Libya – di diventare testimoni di noi stessi utilizzando i nostri smartphone. Ma dopo 100 giorni le autorità libiche ci hanno attaccato con brutalità, hanno anche cercato di distruggere le prove con i nostri telefoni. Tutti quelli che non sono riusciti a scappare sono stati portati in due carceri diversi: uno di questi era guidato da Almasri e dai suoi uomini”.

Ed è allora che Mohamed ha conosciuto il metodo del generale libico. “Lui non l’ho mai visto, ma i suoi uomini sì. Chi era lì ha passato qualcosa di orrendo. Le persone venivano brutalmente selezionate per andare a lavorare, per pulire le case dei nostri carcerieri e per svolgere altri lavori più pesanti. Chi si rifiutava, veniva brutalmente picchiato. E quelli che venivano riacciuffati perché tentavano di fuggire, venivano trattati ancora peggio. Non c’erano soltanto uomini ma anche donne e bambini a subire lo stesso trattamento. Ci veniva dato del pane che dovevamo dividere, le condizioni igieniche erano pessime, c’era poca acqua”.

Mohamed, che vuole essere la voce di chi è ancora prigioniero in Libia, dice senza mezzi termini: “Almasri è semplicemente il simbolo dell’inumanità, controlla diverse carceri ed è un criminale. A torturarmi sono state le sue guardie. Ci sono ancora tante persone lì che ancora subiscono queste torture e chiedo il vostro aiuto per far sentire le nostre voci’’.

La testimonianza di Lam

Difficile anche la storia di Lam Magok, proveniente dal Sud Sudan. “Sono stato in Libia 4 o 5 anni. Lì non puoi neanche andare al supermercato a comprare qualcosa al negozio perché rischi di essere sempre trattato come un criminale. Anche io, come altri, sono passato da una prigione all’altra. Ho tentato di fuggire, ma era impossibile”. Lam rivela: “Nel 2020 è stata l’ultima volta in cui sono stato in prigione in Libia, ho incontrato Almasri e la sua mafia. Di figure come Almasri in verità ce ne sono tante in Libia. Una volta chiuso nelle prigioni, non puoi più avere contatti con nessuno. Ho dato notizie ad altri per far sapere alla mia famiglia di essere ancora vivo”.

Afferma sempre Lam: “All’inizio non sapevo di essere nella prigione di Almasri, che si trovava in una base militare. In molti hanno lavorato per costruire delle costruzioni e pensavano così di poter fuggire, ma eravamo super controllati con droni e militari. Ho provato una seconda volta ma non ci sono riuscito”. Lam ha tentato addirittura “sei volte’’ la traversata in mare per raggiungere l’Europa ma ogni volta la Guardia Costiera libica lo “ha riportato indietro, nelle carceri libiche”. Soltanto grazie a un corridoio umanitario dell’Onu Magok ha raggiunto lo scopo di approdare in Europa e respirare la libertà.

La lotta per gli altri rifugiati

Sia Lam Magok che Mohamed Daoud assicurano “di voler continuare a raccontare cosa passano ancora oggi nelle carceri della Libia i migranti attraverso i video e le testimonianze raccolte su RefugeesinLybia. Uno dei problemi è il memorandum tra Italia e Libia (firmato nel 2017 dall’allora governo Gentiloni, ndr.) che dà soldi a bande criminali e alla cosiddetta Guardia Costiera libica”.

L’arresto di Almasri aveva rinfrancato Mohamed e Lam: “Quando in Italia si è diffusa la notizia dell’arresto di Almasri su mandato della Cpi – confermano – avevamo pensato che la giustizia si stesse avvicinando, ma quando l’Italia l’ha rilasciato ci siamo sentiti nuovamente vittime come quando siamo stati torturati. Vogliamo rispetto come essere umani, ecco perché ci siamo indignati con il governo italiano quando l’ha liberato. La comunità internazionale ci ascolti, Almasri starà di nuovo torturando la gente in Libia dopo il suo ritorno”.

Dal canto suo Laura Marmorale, presidente di Mediterranea Saving Humans sottolinea come l’incontro con i due esponenti della rete RefugeesinLybia abbia avuto lo scopo “di far comprendere cosa significhi criminalizzare la solidarietà e criminalizzare chi vive e subisce sulla propria pelle le politiche razziste dei governi occidentali e europei. Le politiche di chiusura delle frontiere individuano le persone in movimento come le uniche responsabili dei mali del mondo. Le frontiere diventano pericolosissime, anche dove non ci sono, ad esempio in mare”. Anche Marmorale presidente fa un passaggio su Almasri: “È ricercato dalla Corte penale internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità. Nel carcere di Mitiga, a Tripoli, ha commesso violazioni dei diritti umani torturando e maltrattando migranti, oltre a ordinare ad altri atti del genere”.

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