Il 25 gennaio 2024 è sbarcato anche in Italia il nuovo film di Yorgos Lanthimos, “Poor Things”, italianizzato in “Povere Creature“. Vincitrice del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia e candidata alla notte degli Oscar, questa pellicola ha una messa in scena che impressiona e emoziona. Bastano pochi secondi e ci si sente catapultati in un universo distopico, raccontato con la fotografia in 35mm di Robbie Ryan, che spazia dal bianco e nero quando la nostra protagonista è in forma embrionale, fino alla tavolozza di colori accesi che testimonia il suo accesso al mondo. Il grandangolo e il fish eye (grandangolo estremo) catturano i momenti salienti. Le tinte dei palazzi suggeriscono le sfumature personali della protagonista e i costumi diventano simboli del suo arco di trasfromazione.
Nato come adattamento all’omonimo libro dello scozzese Alasdair Gray, il film traccia divinamente la crescita umana dell’individuo. A viverlo è Bella Baxter, interpretata da una Emma Stone perfettamente calata nella parte. È la storia di un certo Godwin Baxter, spesso chiamato non a caso God, che dopo aver trovato il corpo di una donna suicida, sceglie di usarlo per un proprio esperimento. In nome della scienza e del progresso, lo riporta in vita facendone la sua creatura, Bella. La salva trasferendo il cervello del feto, di cui era incinta la donna al momento della morte, nel cranio dissanguato. Questo incipit folle spiega come l’handicap di Bella non lo è fino in fondo, perché in realtà deve attendere semplicemente i tempi di maturazione di un bambino. E questo crea l’evidente differenza tra la sua età fisica e quella intellettiva su cui Lanthimos gioca e costruisce questa personalità irriverente e sfacciata.
La liberazione di Bella parte dal piacere che scopre durante la colazione di una mattina come le altre. E continua nei capitoli successivi, all’interno di un mondo sospeso sulla linea del tempo, dove le acconciature di epoca vittoriana si mischiano alle vetture che sorvolano lo spazio come macchine futuristiche. Una dimensione iper-suggestiva e fiabesca densa di tanti effetti visivi. È poi che Lanthimos ci fa uscire dalla gabbia d’oro (la villa di Godwin dove vivevano insieme) che avrebbe reso solo claustrofobica l’esperienza dello spettatore, scoprendo il suo intento purissimo di ribellarsi alle storie già scritte.
La rivolta del regista è la stessa di Bella ed è veloce nella misura della sua crescita di capelli (due centimetri e mezzo al giorno) e delle sue abilità di apprendimento (quindici parole ogni ventiquattrore). Tutto passa per i viaggi (Lisbona, Atene, Alessandria, Parigi) dove il cervello e il corpo vergine di Bella scopre il sesso con Duncan Wedderburn, interpretato da un Mark Ruffalo in veste di abile e dissoluto avvocato. In questo frangente, sono proprio le scene erotiche a dominare il film, non perché dovessero – almeno in questo caso – segnalare l’evidente permanenza animale nell’essere umano, ma più perché serviva rivendicare nella sessualità lo strumento pioniere di emancipazione dell’essere femminile, ora non più sottomesso e succube delle logiche retrive di potere e dominio.
Bella è così libera che non conosce la gelosia o l’esclusività, non crede che l’eterosessualità sia l’unica possibilità o che prostituirsi significhi non amarsi o rispettarsi. È così che finisce per lasciare l’avvocato, fare “salti folli e furibondi” con altri uomini e donne, e per lavorare in un bordello parigino come sex-worker. Ma la sua esperienza si intreccia anche con la sofferenza e la povertà, come ad Alessandria, ed è fatta di altre intense conversazioni, come quelle con la saggia Martha che conosce nel surreale viaggio in nave.
Ed è una storia di perdita di innocenza, dove gli abiti si fanno sempre più estrosi, le mutandine più hot e la coscienza di Emma più sporca. Ma è tutto così inevitabile che anche alla fine Bella non ci sembra agire in modo sbagliato quando ripetendo la tecnica di trasferimento cerebrale del padre (tutto funzionale nel cinema, tutto torna, niente lasciato al caso) dà al suo ex marito, quello della sua ex vita, il cervello di una capra. Succede proprio in quell’epilogo in cui Lanthimos ci pone davanti un bivio, chiedendoci se il percorso che viviamo ci cambia davvero, e se sì in che misura. Bella sta per tornare sui suoi passi, abbandona il prediletto sposo (con cui il matrimonio architettato già dopo il minuto 20 viene procrastinato ironicamente all’infinito) e sceglie di guardare cosa c’era in quella vita che non volle proseguire suicidandosi.
Lanthimos ci dice che è vero, non restiamo uguali al punto di partenza, anche quello di un’altra vita che ci riguarda ma che ignoriamo. E non siamo uguali nemmeno a ieri, a un’ora fa e a un istante fa. Siamo in continua evoluzione. E Bella lo sa.