Lasciare volontariamente la propria tranquilla dimensione professionale per dare una speranza di lunga vita a migliaia di bambini la cui unica colpa è quella di essere nati in un Paese diseredato. Bruno Cigliano e Antonio Savanelli, medici del Dipartimento di chirurgia pediatrica all’Università Federico II di Napoli, ora entrambi in pensione, almeno una volta l’anno si recano all’ospedale St.Mary’s Hospital Lacor, in località Gulu, nel nord dell’Uganda, per operare i minori in pericolo. Si tratta di una struttura che conta oggi 6 sale operatorie ed è il più grande ospedale no profit dell’Africa Subshariana.

Per le proprie missioni in Africa, Antonio e Bruno lasciano quando possono le proprie attività mediche in strutture private del territorio napoletano e campano, rinunciando anche ai compensi a loro spettanti. Cigliano e Savanelli mettono a disposizione la loro esperienza medica e competenza per ridurre il pericolo di morte dei bambini che arrivano nel nosocomio ugandese in condizioni disperate. E lo fanno senza avere alle spalle grosse organizzazioni umanitarie, quelle per intenderci più in vista e conosciute che possono contare su centinaia e centinaia di migliaia di euro (forse più) di donazioni.

Entrambi fanno parte di Surgery For Children, associazione di medici, infermieri e volontari nata quasi 25 anni fa a Vicenza per volere del dottor Sergio D’Agostino. La dimensione di Surgery For Children rispetto ad altre Ong è più piccola ma l’azione filantropica altrettanto incisiva, basata sulle donazioni che hanno consentito nei decenni di aiutare persone in difficoltà in Ecuador, Venezuela, a Gaza, a Santo Domingo, in Uganda. Negli anni Antonio e Bruno hanno operato oltre 700 bambini e visitato almeno 1500. “Appena arrivato in Uganda l’impressione che ho avuto – ricorda Cigliano – è stata quella di un cazzotto nello stomaco. Vedere il disastro di questi pazienti piccoli così malati mi ha impressionato. Quanto facciamo noi e Surgery For Children è soltanto una goccia nell’oceano”.

Il tipo di operazioni pediatriche che i due medici effettuano ancora oggi nel Paese africano, già colpito in passato da un’epidemia di ebola e una devastante guerra civile che ha mietuto un altissimo numero di morti, è decisivo per salvare vite umane. In Italia gli stessi tipi di interventi sono oramai di routine, se non addirittura superate. Antonio Savanelli conferma: “Operare la neovescica rettale, all’ospedale di St.Mary ancora oggi determina il destino di un bambino. Se prendi una decisione sbagliata oggi, domani quel piccolo potrà sviluppare una forma tumorale. Al contrario, in Italia operazioni così oramai non se ne fanno più, sostituite da tecniche più moderne”.

Bruno Cigliano aggiunge: “La situazione più comune è quella di un bambino che, mai visitato prima, arriva da te ed è così sofferente da non poter avere tempo di decidere. Nell’area di Gulu, dove sorge l’ospedale St.Mary’s Hospital Lacor che è il più attrezzato dell’Uganda, c’è un dialetto particolare, l’Acholi che viene parlato da diverse etnie che si trovano nel nord del Paese. Diviene complesso comunicare con i familiari dei piccoli perché non tutti parlano inglese. Capita che un piccolo nasca maschio ma in realtà è una femminuccia virilizzata. A quel punto noi dobbiamo chiedere ai familiari cosa fare, se acconsentono all’operazione e la tempestività risulta decisiva. Ma se non c’è qualcuno che fa da interprete, si perde tempo prezioso. È questo il contesto in cui ci troviamo a operare”.

Il dottor Cigliano fa un riferimento medico concreto utile a far immedesimare nella situazione chi ascolta o legge. “In ospedale giungono tanti bambini con la colonstomia e con la malattia del morbo di Hirschsprung (altrimenti detto megacolon congenito, cioè una patologia rara in cui i movimenti del tubo intestinale malato sono assenti o alterati con conseguente difficoltà nell’evacuazione ndr.) e tanti bambini senza l’orifizio anale o con l’ipospadia (cioè una malformazione congenita che origina durante la vita fetale ed è caratterizzata dallo sviluppo anomalo dell’ultima porzione del condotto uretrale e cute prepuziale sovrastante, ndr.). Salvarli è la priorità, a volte è complicato”. Ma l’esperienza cinquantennale di Bruno e Antonio è un dono meritato per questi bambini.

Cigliano racconta un ulteriore aneddoto. “Nell’ultima missione ugandese è arrivato un ragazzino di 14-15 anni etichettato come femminuccia per i primi 10 anni della sua vita. Lui in realtà sentiva un’attrazione per le donne e la tribù di cui faceva parte ha accettato questo cambiamento inaspettato. Per tale ragione, l’abbiamo operato sistemandogli il pene. Ora, può vivere appieno la sua dimensione. Noi non ci siamo resi conto che quanto fatto gli avrebbe cambiato la vita, l’abbiamo compreso quando ci hanno chiesto di tornare all’ospedale St.Mary Lacor per effettuare altre operazioni del genere”.

L’importanza della comunicazione

Il contesto ugandese, come del resto in tanti Paesi dell’Africa subshariana, è così difficile che anche una corretta e veloce comunicazione determina l’avvenire. “Gli annunci delle visite vengono dati per radio – dice Antonio Savanelli – e chi ascolta spera che venga pronunciato il nome di suo figlio che così può ricevere una visita e nel caso essere operato. In tanti hanno dovuto affrontare spese che in realtà non possono sostenere anche solo per acquistare un apparecchio radiofonico”.

I problemi economici si fanno ulteriormente duri quando è necessaria un’operazione. È il dottor Bruno Cigliano a raccontare un’altra storia significativa. “C’era questo bambino che soffriva di ipospadia, aveva il pene curvo. Dopo un consulto con un urologo e con una soluzione a pagamento, si è deciso per l’operazione che però non è andata a buon fine. La sua famiglia, per raccogliere i soldi necessari, non solo ha sacrificato l’istruzione del fratello, ma per una seconda operazione, non riuscita al pari della prima, il papà ha venduto la terra da cui traeva il suo sostentamento”.

Ancora una volta, a fare la differenza, l’impegno di medici come Bruno e Antonio. “Il padre di quel bambino, in lacrime – prosegue Cigliano – ha saputo della nostra presenza. Siamo riusciti ad operarlo: intervento perfettamente riuscito. I genitori ci hanno scritto una lettera dove ci ringraziavano per quanto fatto. È questo il nostro scopo. Dare un futuro a chi apparentemente non ne ha”. Ma non sempre può andar bene. Dice sempre Cigliano: “È anche capitato che un bambino sia morto nonostante il nostro intervento. Abbiamo fatto di tutto per salvarlo, non ci siamo riusciti. Non capita spesso ma purtroppo succede. Nonostante ciò il papà ci ha ringraziato comunque dicendo che non era colpa nostra ma che Dio che non ha voluto fare la sua parte. Fu dura ascoltare quelle parole”.

I sacrifici nella missione

Raccogliere fondi  per finanziare la missione non è impresa sempre facile. Ancora meno è affrontare il viaggio per arrivare in Uganda e rimanerci di solito per tre settimane senza un attimo di tregua. Spesso, rivela Antonio Savanelli, “cominciamo le operazioni alle 9 del mattino andando avanti sino a tarda sera. Si lavora incessantemente, le pause sono pochissime. Qualche domanda te la fai, anche perchè sia io che Bruno oramai abbiamo settant’anni. Occorrono tante energie fisiche. Il viaggio dura una giornata tra aerei e spostamenti interni e appena arrivi devi metterti subito al lavoro. Poi, però, ti accorgi che in Uganda ci sono tante persone che ti aspettano dalle prime ore della giornata soltanto per un consulto. Rappresenti una speranza per loro, non puoi sottrarti”.

Savanelli mette sul tavolo un altro fattore, di cui tener conto: “Per andare in missione in Uganda, operare e formare sul posto medici e infermieri prendo ferie non pagate dalle cliniche private dove ora lavoro. È così: non lavorare nelle strutture private significa non prendere soldi. Sono però ben lieto di farlo, se ciò significa aiutare chi ha bisogno in Paesi poveri”. In proposito, dice Savanelli “lo Stato italiano non prevede un distacco per missioni del genere”. Non è tutto. ”Al Nord i medici che vanno in missione in Africa sono circa il 15%, al Sud poco superiore al 2-3% e chi ha una libera professione non riesce ad andare se non consapevole di perdere soldi dalle proprie attività lavorative”.

Bruno Cigliano, con gli occhi lucidi come nella maggior parte del tempo del nostro colloquio, riflette su quanto fatto sino ad oggi. “La prima volta che siamo andati in Uganda, la missione contava 6 persone. Antonio è arrivato anni fa, si è subito attivato vista la nostra amicizia e quella con Sergio D’Agostino, fondatore di Surgery For Children. Nell’ultimo anno eravamo 31 persone e le nostre missioni sono sempre più conosciute”. La prossima partenza per l’Uganda è prevista per il prossimo febbraio. Ad attenderli, come sempre, migliaia di persone che hanno bisogno di aggrapparsi alle ali di questi angeli in camice per continuare a sperare in una vita lunga e piena di sorrisi.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here