Una giornata internazionale del rifugiato, celebrata ogni anno il 20 giugno, che in Italia al di là della retorica fa i conti con un meccanismo di accoglienza piuttosto lento. A dimostrarlo alcuni dati raccolti dal Ministero dell’Interno tramite alcuni accessi civici e riportati da dalle associazioni che animano “Ero Straniero”, la campagna nata nel 2017 promossa tra gli altri dai Radicali Italiani, ActionAid, Legambiente, Emergency, Comunità di Sant’Egidio, Fondazione Migrantes, Caritas italiana.
I numeri delle Prefetture
Dal mese di maggio del 2020, quando il Viminale ha aperto una finestra per l’emersione del lavoro nero irregolare con l’articolo 103 comma 1 del decreto legge “Rilancio’’ n. 34 del 19 maggio, e sino ad agosto, ultimo mese in cui era possibile usufruire di tale opportunità, sono stati circa 60.000 i permessi di soggiorno rilasciati a fronte di oltre 230.000 domande. Si tratta del 26% del totale. Da “Ero Straniero” denunciano – sempre tenendo in considerazione l’anno 2020 – che le procedure di regolarizzazione ed emersione hanno coinvolto circa 220 mila donne e uomini senza titolo di soggiorno e con permessi di soggiorno “precari”.
Al 31 dicembre 2020 sono state presentate dal datore di lavoro 207.000 domande per l’emersione di un rapporto di lavoro irregolare e l’instaurazione di un nuovo rapporto con un cittadino straniero. Le convocazioni effettuate sono state 13.244 con 10.701 richieste di permessi di soggiorno con 923 rigetti e 440 rinunce. Alla fine del 2020 stati rilasciati solamente 1480 permessi di soggiorno, cioè lo 0,71% del totale. A ulteriore riprova di tale farraginosità del sistema, a febbraio del 2021, ossia dopo 6 mesi dalla chiusura della finestra per l’emersione del lavoro nero, soltanto il 5% delle domande è arrivato alla fase finale dell’istruttoria, mentre il 6% è risultato essere nella fase precedente alla convocazione di lavoratore e datore di lavoro in Prefettura per la firma del contratto e il successivo rilascio del permesso di soggiorno. Da “Ero Straniero” poi rilevano che addirittura in 40 prefetture d’Italia non risultano nemmeno essere state avviate le convocazioni, come denunciato anche da diverse associazioni.
A scontare gravi carenze, molte Prefetture delle grandi città. Tra queste la Prefettura di Caserta, che a metà febbraio 2021 delle 6.622 domande ricevute per l’assunzione – 3.710 per lavoro domestico, 2.912 per lavoro subordinato nel settore agricolo – è riuscita ad effettuare soltanto 10 convocazioni per finalizzare l’assunzione. Al 31 gennaio 2021 la Prefettura di Roma su un totale di 16.187 domande ricevute ha cominciato ad analizzare 900 domande senza che però alcuna pratica fosse arrivata alla fase conclusiva per la firma del contratto di soggiorno (in questo modo, si calcolano 5 anni per la conclusione delle procedure di emersione). Non va meglio a Milano dove a metà febbraio 2021, su oltre 26.000 istanze ricevute 289 pratiche risultano in fase istruttoria con 16 convocazioni a settimana. In alcune atre prefetture le convocazioni sono al massimo 4 o 5 al giorno.
Numeri migliori in Questura
Numeri migliori invece per le richieste di permesso di soggiorno temporaneo inoltrate alle Questure direttamente dal lavoratore. Al 31 dicembre 2020, sempre stante ai dati del Viminale riportati da “Ero Straniero”, sono stati rilasciati 8.887 permessi di soggiorno su 12.986 domande presentate, pari al 68%. Di questi permessi temporanei, 346 sono stati successivamente convertiti in permessi di soggiorno per lavoro.
Le considerazioni di “Ero Straniero”
“Serve un intervento immediato da parte del Ministero dell’Interno per consentire a quante più persone di portare a termine la procedura avviata, vivere in sicurezza e lavorare legalmente nel nostro Paese”, le considerazioni di “Ero Straniero“. “Non è sufficiente – sostiene – un provvedimento straordinario per affrontare l’irregolarità. Serve uno strumento che risolva a lungo termine la questione, una regolarizzazione su base individuale degli stranieri ‘radicati’, e cioè una procedura di emersione sempre accessibile che dia la possibilità a chi è senza documenti di mettersi in regola a fronte della disponibilità di un contratto di lavoro o della presenza stabile sul territorio, come accade, per esempio, in Germania o in Spagna”.
La falla delle politiche di integrazione dei beneficiari della protezione internazionale
L’Italia risulta essere piuttosto indietro anche rispetto alle politiche di integrazione di chi gode di protezione internazionale, dove emerge l’alto rischio di povertà ed emarginazione. A confermarlo le risultanze del progetto Niem (National Integration Evaluation Mechanism, ossia Meccanismo nazionale di valutazione dell’integrazione) della durata di 6 anni attraverso il quale è stato analizzato in 14 Paesi dell’Unione Europea il grado d’impegno verso i bpi (beneficiari di protezione internazionale).
Diversi gli ambiti trattati: politiche sul lavoro; salute; accesso all’istruzione; accesso al sistema abitativo; ricongiungimento familiare; discriminazione e pregiudizi; integrazione e pandemia. Le criticità, a seconda delle varie branche, emergono in molte delle nazioni coinvolti nell’analisi comparata condotta anche dalla “European Union Asylum, Migration and Integration Fund” e la fondazione “Ismu – Iniziative e studi sulla multietnicità” di Milano.
Proprio da Ismu, in relazione a quanto emerso dal progetto Niem, affermano: “I bpi in uscita dal sistema di accoglienza risultano ad alto rischio povertà-emarginazione. Gli interventi concernenti l’insegnamento della lingua, la formazione professionale, ecc. sarebbero più efficaci soprattutto se iniziati tempestivamente. All’uscita dalle strutture di accoglienza, al di là di qualche non trascurabile formale discriminazione (come nel caso del reddito di cittadinanza, a cui si può accedere previa residenza da almeno dieci anni sul territorio nazionale), i bpi sono generalmente trattati alla pari degli altri cittadini, ma, per la condizione di vulnerabilità in cui essi si trovano, tale aspetto positivo spesso si traduce per molti in una accentuazione della condizione di povertà e di emarginazione”. Un esempio? “Non avere un rapporto stabile di lavoro accentua la difficoltà a trovare casa in affitto – dicono da Ismu – La situazione di povertà-emarginazione ha ripercussioni negative sulla stessa fruizione dei diritti, come per esempio quello al ricongiungimento familiare”.
L’Italia, secondo lo studio Niem, come la maggior parte dei 14 Paesi dell’Unione Europea presi in considerazione (Bulgaria, Francia, Grecia, Italia, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovenia, Spagna, Svezia, Ungheria), appare carente sulle politiche del lavoro. Dicono da Ismu: “In Italia, al 1° gennaio 2020, si stimano in poco meno di 56mila le persone in possesso di un permesso di soggiorno riconosciuto nell’ambito della protezione che lavorano (i rifugiati lavoratori sono 21mila, quelli con protezione sussidiaria 29mila e circa 5mila i lavoratori con permesso di soggiorno residuo per motivi umanitari). A questi si aggiungono 19mila lavoratori richiedenti asilo”.
Non va meglio sul sistema abitativo. In Italia “la condizione paritaria rispetto ai cittadini nazionali è ostacolata da una scarsa politica abitativa e dalle numerose difficoltà pratiche di accesso alla casa (tra cui la diffidenza dei locatori). Inoltre l’Italia condivide con Grecia e Polonia il problema del sovraffollamento nelle abitazioni e la creazione di quartieri ghetto”, è la sintesi di Ismu. Altra nota dolente per il nostro Paese, la voce legata a discriminazione e pregiudizi. “In Italia – affermano sempre da Ismu – è stata segnalata la mancanza di fiducia reciproca tra la società ricevente e i nuovi arrivati che rende difficoltoso il processo di integrazione”.